ISSN 2974-508

Verona

Marco Bolzonella
Fotografia dell'autore
  Verona dalla prima età comunale al dominio ezzeliniano (1136-1259)
Verona, sotto il profilo dell’evoluzione socio-politica delle istituzioni cittadine del Veneto di terraferma, avviò precocemente sia l’esperienza comunale (1136-1140) sia l’integrazione dei gruppi sociali legati alla mercatura nelle funzioni di governo. La locale Universitas mercatorum (ente coordinatore e disciplinatore delle arti attivo già lungo gli anni Settanta del XII secolo), del resto, fu organo, come è stato più volte sottolineato in sede storiografica, destinato a divenire, sin dal primo Duecento, competente pure nelle decisioni di rilevanza politica dello stesso comune. Il primo cinquantennio di vita del comune di Verona fu una stagione di importanti affermazioni su svariati fronti come, ad esempio, l’acquisto della Gardesana, il controllo politico del territorio costituente l’antico comitato, le svariate iniziative tese ad assorbire a vantaggio della città le prerogative dei grandi enti ecclesiastici titolari di signorie rurali, la fondazione di centri demici indispensabili per disciplinare al meglio l’habitat extraurbano (esemplare, a riguardo, il caso di Villafranca Veronese). La stessa organizzazione interna del comune cittadino fu sempre meglio disciplinata e normata: l’elezione dei consoli (alternata con quella di un podestà in genere appartenente all’aristocrazia veronese) divenne una procedura con scadenza annuale; tra 1180 e 1190, invece, si ratificarono le mansioni delle magistrature consolari e podestarili sotto forma di giuramento da prestare ad inizio mandato.
Nonostante questi indiscutibili successi dell’istituto comunale il ceto dirigente cittadino fu, però, caratterizzato da un equilibrio interno molto precario. Lungo l’ultimo decennio del XII secolo, difatti, si acuirono le tensioni tra fazioni che avevano come rispettivi leaders da un lato i Turrisendi (la famiglia di maggior rilievo nella politica cittadina veronese) e i Montecchi (la cosiddetta pars Monticulorum) e i conti di San Bonifacio dall’altro. Una instabilità aumentata oltremodo dalla politica d'intervento attivo, in seno ai diversi comuni della Marca trevigiana, dall’influente Azzo VI d’Este. Il marchese estense, infatti, a Verona fu in grado di pilotare, a favore o contro uno dei due schieramenti in aperto contrasto, una nutrita schiera di suoi alleati parte integrante dell’élite urbana: la pars Comitum capeggiata dalla famiglia San Bonifacio, proprio grazie al decisivo supporto di Azzo d’Este, prevalse a Verona sino al 1213. Una svolta si ebbe in seguito ad un rimescolamento delle alleanze e al decisivo cambio di schieramento di una terza fazione: quella dei Quattuorviginti nel 1225. A partire da quest’anno la pars Monticulorm, sostenuta dall’imperatore e da Ezzelino III da Romano, si impose quale indiscusso fulcro della vita politica cittadina. Un anno cruciale per Verona fu, quindi, il 1239. Pier delle Vigne, alla presenza dello stesso Federico II di Svevia, proclamò il bando perpetuo dei principali esponenti della pars Comitum lasciando, di fatto, mano libera in città a Ezzelino III e ai suoi fedelissimi. Il da Romano, in riva all’Adige, non solo amò risiedere con frequenza ma potè contare per più di venti anni sul consenso di una sostanziosa parte del ceto dirigente e della popolazione locale. Non a caso, in sede storiografica si è parlato, con fondatezza, di Verona quale 'capitale' del dominio ezzeliniano nella Marca. Un solo esempio inerente alla capacità del da Romano di essere assoluto padrone della città è illuminante. Egli, nel 1245, prima riuscì a prevenire con una lucida esibizione di intelligenza militare eventuali rivendicazioni imperiali tese, secondo il giudizio di un cronista del tempo, a sottrarre Verona dal suo diretto controllo quindi allontanò dai centri del potere cittadino, giustiziò e esiliò i suoi alleati dimostratisi non più affidabili come diversi esponenti della pars Monticulorum, dei Quattuorviginti e della parentela dei Della Scala (tra cui Ongarello II, Bonaventura, Bonifacio e Federico).
  L’ascesa politica di Mastino Della Scala e la formazione della signoria scaligera (1259-1310)
La restaurazione degli ordinamenti comunali nella Verona post-ezzeliniana (1260) consentì una partecipazione sempre più ampia alla vita pubblica di personalità appartenenti alle associazioni professionali e di mestiere: il potere effettivo era, non a caso, detenuto dal Consiglio dei gastaldioni delle arti, svincolati nella loro azione di governo dalla soggezione alle stesse norme statutarie. Il rientro in città dei fuoriusciti che vantavano meriti cruciali nella sconfitta di Ezzelino portò, però, in breve alla ripresa delle lotte intestine. In questo frangente emerse prepotente sulla scena politica la figura di Leonardino, detto Mastino, Della Scala. Un uomo che, ad ogni modo, già aveva avuto una certa rilevanza durante la dominazione ezzeliniana: il 28 gennaio 1259, infatti, era stato nominato potestas Communis: primo podestà attestato da quando, nel 1252, il da Romano aveva iniziato a servirsi di vicari o altri magistrati variamente denominati. L’indiscutibile preminenza dello scaligero in seno alle rinate istituzioni ‘repubblicane’ si concretizzò con una certa rapidità, in sostanza, attraverso il controllo della Domus mercatorum (la principale organizzazione economica cittadina),
la difesa degli interessi della cittadinanza contro le rivendicazioni e le congiure organizzate dai fuoriusciti nonché mediante iniziative diplomatiche e militari contro i nemici esterni (mantovani, bresciani, trevigiani e padovani soprattutto). Intorno al 1276 si può asserire che Mastino Della Scala era ormai il signore di fatto di Verona nonostante mantenesse un formale rispetto nei confronti dell’intera impalcatura istituzionale del comune popolare.
Il consolidamento della nascente signoria scaligera si rassodò nel corso del 1277. Ciò nonostante l’assassinio nel mese di ottobre dello stesso Mastino. In seguito alla morte del Della Scala, infatti, fu eletto suo fratello Alberto quale ‘capitano e rettore dei gastaldi dei mestieri e di tutto il popolo di Verona’. Una sostanziale tranquillità e sicurezza interna (rafforzata dal controllo scaligero dei principali istituti religiosi cittadini e dell’intero distretto extraurbano) consentì, a questo punto, ad Alberto I Della Scala di impegnarsi con successo in politica ‘estera’ (spiccano i tentativi di destabilizzare l’area vicentina in mano padovana e di inserirsi con una crescente influenza nella zona emiliana) e in strategie di alleanze matrimoniali di ampio respiro, finalizzate a consolidare il rango famigliare: le mogli scaligere furono scelte, infatti, all’interno delle potenti parentele dei Pallavicino, dei marchesi d’Este, dei Visconti di Milano e degli Antiochia discendenti degli Svevi.
Bartolomeo e Alboino Della Scala furono i successori, rispettivamente nel 1301 e nel 1304, del padre Alberto.
  Verona scaligera: da Alboino agli ultimi signori (1311-1387)
Alboino Della Scala nel 1308 nominò il fratello minore, Cangrande, capitano penes se (ossia effettivo coreggente). Una carica che si tramutò in signoria in solitaria nel febbraio 1312 alla morte di Alboino. Cangrande diede così avvio ad una stagione di ostilità nella Marca Trevigiana: egli provocò palesemente Padova ottenendo il titolo di vicario di Enrico VII a Vicenza e rendendo, così, lo scontro armato con i padovani inevitabile. Nel giro di una decina d’anni, quindi, a partire dal 1317 sferrò l’aggressione diretta contro Padova che portò, nel 1320, gran parte del contado di diretta pertinenza padovana in mano scaligera. Una superiorità militare concretizzatasi nel settembre 1328 con il trionfale ingresso di Cangrande Della Scala in città e l’inizio della formale soggezione di Padova a Verona. Lo scaligero, nel 1329, aveva ormai assunto, come evidenziato a più riprese già dallo stesso Dante Alighieri, una posizione di assoluta preminenza nello schieramento filoimperiale dell’Italia padana (soprattutto grazie alle decisive alleanze con i Visconti di Milano e i Bonacolsi di Mantova) e, sfruttando la propria indiscutibile abilità militare, era diventato padrone di Feltre, Belluno, Ceneda e Treviso. Egli in quest’ultima città, pochi giorni dopo la conquista, morì per una malattia improvvisa (in seguito a recenti analisi dei suoi resti mortali, forse in realtà fu avvelenamento) nel luglio 1329.
I successori di Cangrande, Mastino II e Alberto II (figli di Alboino), avviarono una grande stagione di espansione dello stato scaligero. I Della Scala riuscirono, infatti, a conquistare Brescia (1332), Parma e Lucca (1335) entrando, in seguito all’occupazione della città toscana, in conflitto aperto con Firenze. Nel medesimo torno d’anni, tra l’altro, Venezia iniziò a osservare con crescente sospetto l’ormai consistente ampliamento territoriale che consentiva a Verona da un lato di controllare con facilità persone e merci in transito lungo l’asta del fiume Po praticamente da Mantova verso est e dall’altro di costruire saline (ubicate lungo i confini del territorio padovano) utili per affrancare i veronesi dalla stringente ed esosa dipendenza economica veneziana. Attriti che condussero i due contendenti alla guerra (1336). Venezia (alleata con Firenze) si impegnò in prima persona in un conflitto offensivo terrestre nei territori della Marca; la nascita di un’ampia coalizione antiscaligera e il decisivo allontanamento di Padova dai Della Scala (provocato da Marsilio da Carrara su pressione veneziana) portarono alla sconfitta dei signori veronesi, sancita dalla pace del gennaio 1339. Nel 1341, dopo la perdita di Parma e Lucca, lo stato scaligero era ormai ridotto al solo controllo di Verona e Vicenza.
Mastino II, morì nel 1351: subentrarono, in sequenza, nella massima carica di governo i vari Alberto II, Cangrande II, Cansignorio, Bartolomeo e Antonio. I decenni del «crepuscolo degli scaligeri», letti da parte della storiografia del passato come un «fosco tramonto nel sangue di una bieca tirannide», furono, secondo il più convincente giudizio di recenti studi, segnati da importanti successi soprattutto nel campo dell’amministrazione di Verona, Vicenza e dei rispettivi distretti: furono create giurisdizioni più ordinate nei due contadi, la gestione della giustizia fu ricalibrata, i consigli minori della città in riva all’Adige si assestarono, prese forma la fattoria signorile come organismo di conduzione finanziaria e fiscale, il consenso delle élites veronesi e vicentine ai prìncipi fondamentalmente non mancò. In politica ‘estera’, tuttavia, gli scaligeri non riuscirono più a modificare a proprio vantaggio, nonostante mirati interventi diplomatici e militari, gli equilibri composti nell’Italia centro-settentrionale. I signori di Verona dovettero rassegnarsi a sposare propositi di corto respiro subordinati, di fatto, alla crescente superiorità di Venezia nell’entroterra veneto e di Milano viscontea nell’area padana. Nel 1387 proprio i Visconti divennero i nuovi padroni della città in riva all’Adige. I milanesi cedettero, quindi, il passo, nell’aprile del 1404, all’effimera conquista carrarese di Verona e alla ben più duratura sottomissione a Venezia avvenuta nel giorno di san Giovanni Battista del 1405 alla fine della guerra voluta dal doge Michele Steno contro Francesco Novello da Carrara.
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