ISSN 2974-508

Belluno

Marco Bolzonella
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  Belluno, «parva urbs in montibus» ai margini della Marca (1184-1259)
Belluno (così come del resto la contigua Feltre) a cavallo fra XII e XIII secolo era una città dall’assetto istituzionale non ben definito: probabilmente, pur non presentando magistrature stabilmente nominate, era strutturata in un regime di tipo comunale (nel 1184 compare una menzione occasionale alla «communitas predicte civitatis» mentre qualche decennio dopo dovevano esistere dei generici «sindici» comunali). La debolezza politica di Belluno, comunque, a questa altezza cronologica è dato certo: nel 1224, ad esempio, i bellunesi dovettero accettare, in materia di imposte e collette, un compromesso alla pari con le piccole comunità rurali di Agordo e Zoldo e non riuscirono a rifiutare ai rappresentanti dei due villaggi ubicati nelle vallate circostanti una compartecipazione al potere cittadino concedendo loro la facoltà di nominare, addirittura, consoli e podestà.
La città in riva al Piave, ad inizio Duecento, al netto degli affanni istituzionali e politici era, a ogni buon conto, soggetta all’autorità di un principe vescovo omologa, per certi versi, a quella esercitata dai presuli a Trento e a Bressanone. Una figura, quella del capo della diocesi bellunese, meritevole di un rapido approfondimento poiché, dato storicamente rilevante, conobbe, sul finire del XII secolo, una importante mutazione. Tra 1197 e 1200, difatti, si attuò l’unificazione delle circoscrizioni ecclesiastiche di Feltre e Belluno. I due poli urbani pedemontani conservarono i rispettivi vescovadi ma furono ‘incapsulati’ in una sola diocesi. La storiografia, nel tentativo di ricostruire nel dettaglio tale accorpamento, ha provato a delineare, sulla base di una documentazione non del tutto esauriente, quali motivazioni abbiano condotto all’unificazione: le tesi più convincenti su una tematica ancor’oggi dibattuta sono, in linea generale, riconducibili a uno spunto decisionale della curia papale, a un patto tra il vescovo di Feltre e quello di Belluno, a una supplica inviata al pontefice dal patriarca di Aquileia oppure, ancora, a diverse situazioni contingenti che finirono per avere esito, assetto e forma definitivi. Ad ogni modo l’uccisione del presule bellunese Gerardo Taccoli (aprile 1197) lasciò campo libero all’azione del massimo prelato feltrino Drudo da Treviso che in breve incominciò ad agire come tutore di entrambe le cattedre episcopali: testimonianze documentarie, del resto, lo designerebbero, sino al 1199 anno della morte, quale «feltrensis et bellunensis episcopus». A Drudo successero il vicentino Anselmo da Breganze (1200) e il feltrino Torresino da Corte (1204). Entrambi furono eletti vescovi di Feltre e Belluno: per i successivi due secoli uno solo sarebbe stato il capo diocesano ma rimasero, aspetto rimarchevole, due le cattedrali, due i capitoli e due le mense vescovili.
L’indubbia autorità vescovile in città e nel territorio, nel primo ventennio del Duecento, iniziò a mostrare i primi segnali di decrescita (soprattutto per motivazioni economiche) a vantaggio dei più potenti centri urbani confinanti, Treviso in primis, e delle famiglie legate da vincoli feudali all’episcopio: le aggregazioni parentali dei Tassinoni, dei Nosada, da Castion o dei Bernardoni, ad esempio, di spicco nell’entourage vescovile erano ormai in grado di affermare una chiara egemonia sul comune cittadino monopolizzandone le varie magistrature.
Il capoluogo trevigiano, da tempo, era peraltro interessato ad assorbire pezzi del Bellunese, del Feltrino e del Cadore all’interno della propria sfera di influenza: padroneggiare questi territori significava avere, tra le altre cose, un più agevole controllo della strada di Alemagna, via di rilievo per gli stessi traffici commerciali veneziani. Nel 1193, non a caso, una lunga serie di conflitti armati culminò con la precaria conquista di Treviso dello strategico castello di Zumelle.
A Belluno, comunque, si può cogliere, tra il 1210 e il 1230, una esplicita fase di indebolimento dell’autorità vescovile. Il presule Filippo, fortemente indebitato, fu obbligato obtorto collo a subire importanti decurtazioni patrimoniali. Egli ai da Camino (la parentela sin dal 1162 era, peraltro, avviluppata in una intricatissima rete di relazioni feudali con le istituzioni ecclesiastiche bellunesi), agli Ainardi (partigiani dei da Romano) e al sempre attento comune di Treviso consegnò Soligo, Mussolente, Oderzo, Fregona e Maser; al vescovo di Bressanone (Corrado da Rodengo) cedette il castello di Andraz; Livinallongo, importante area geografica ed economica gravitante sul feltrino-bellunese, si legò al Tirolo.
Ezzelino III da Romano, sul finire degli anni Venti, si inserì con crescente interesse nelle vicende del territorio feltrino e bellunese: nel 1228 era a fianco del comune di Treviso nella guerra contro il vescovo di Feltre e Belluno che finì per coinvolgere vari attori tra cui il patriarca di Aquileia, Padova e il marchese d’Este. Il da Romano completò, nel 1248, le operazioni di stringente avvicinamento alla città in riva al Piave assicurandosene il dominio assieme a Feltre. È bene evidenziare che le due cittadine pedemontane furono conquistate per motivazioni avulse dalla politica imperiale, di cui Ezzelino era al tempo il massimo collaboratore nella terraferma veneta, ma per calibrati interessi militari e strategici personali: sorvegliare da padrone la valle del Piave significava sottrarre ai rivali da Camino la possibilità di muoversi liberamente in questo preciso scacchiere. Belluno (ma pure Feltre), secondo alcune attestazioni cronachistiche e documentarie, durante l’età ezzeliniana fornì al suo dominus un discreto appoggio. All’interno del nucleo dei milites locali era ben attestata la presenza di fedelissimi del da Romano (definiti non a caso fratres o amici) utilizzati pure in ruoli di responsabilità militare in altri contesti cittadini.
  Dalla caduta di Ezzelino III da Romano agli anni del ‘protettorato’ padovano e trevigiano (1259-1320)
Belluno all’indomani della conclusione del dominio ezzeliniano si inserì, in maniera abbastanza stabile, nell’area di influenza padovano-trevigiana. Il vescovo Adalgerio Villalta (canonico di Aquileia vicino ai caminesi), nel 1260, alla ricerca di un alleato potente strinse con il comune di Padova un accordo che fu un successo diplomatico soprattutto per la città di Antenore in procinto di divenire potenza egemone su scala regionale. Le autorità comunali padovane, infatti, ottenevano dal presule bellunese la promessa di acquistare un palazzo e proprietà fondiarie a Padova nonché l’assicurazione del vescovo di fornire un contingente di armati per l’esercito, di sostenere obblighi fiscali, di concedere privilegi commerciali e di ricevere a Feltre e a Belluno podestà provenienti dal capoluogo euganeo. Uno stringente accordo (Adalgerio diventava a tutti gli effetti un cittadino di Padova) che, a quanto sembra, fu rispettato se si considera che fino al 1300 furono quasi solo padovani a ricoprire la carica podestarile a Feltre e a Belluno. Il da Villalta, poi, tra il 1265 e il 1266, sforzandosi di rafforzare ulteriormente l’incisività della sua azione a discapito della nobiltà territoriale, sempre meno docile nei confronti del presule locale, volse lo sguardo in direzione dei caminesi, come ricordato, da tempo attivi e con radicati interessi nello spazio geografico bellunese e feltrino. Il vescovo conferì così il capitanato generale (a vita) di Feltre e Belluno ad una figura di assoluto prestigio come Gherardo da Camino (1266). Una carica che consentì al caminese, nonostante alcuni tentativi di resistenza da parte dello stesso Adalgerio spalleggiato da alcune delle famiglie bellunesi eminenti, di diventare nel corso dei decenni successivi signore de facto di Belluno. Un solo episodio, tra i tanti, ci consente di illustrare quale posizione di potere avesse raggiunto in città Gherardo da Camino: nel 1297-1298 assieme al figlio Rizzardo, secondo un giudizio ormai condiviso, fu il mandante dell’assassinio del vescovo (il frate francescano Iacopo da Valenza) a cui successe Alessandro Novello (1298-1320) gradito proprio ai caminesi. Un presule, quest’ultimo, menzionato anche da Dante Alighieri nel Paradiso (canto IX, 51-60) con parole non lusinghiere quali «empio pastor» e «prete cortese», reo di aver consegnato e destinato a sicura morte alcuni rifugiati provenienti da Ferrara dove erano stati protagonisti di una congiura contro il fiorentino Pino della Tosa. Il Novello, comunque, sino al 1312 non lesinò sostegno e appoggio ai da Camino ma, dopo tale data, nel turbolento contesto dall’espansionismo scaligero nella Marca fornì ai suoi sostenitori un supporto molto meno ‘limpido’ e a tratti decisamente controverso.
È evidente, alla luce di quanto sin qui schematicamente esposto, che, sino alla fine del Duecento, Belluno fu, a tutti gli effetti, una sorta di protettorato del comune di Padova e della Treviso caminese.
Nell’àmbito istituzionale, lungo la seconda metà del XIII secolo, a Belluno si affermò un Consiglio (forse composto da 40 membri) al cui interno avevano funzione deliberativa anche il vescovo, il podestà e i consoli. Tale consesso fu monopolizzato da quattro strutture consortili (due ‘guelfe’, Bernardoni e Tassinoni, e due ‘ghibelline’, Nossadani e Casteoni), già in evidenza alla fine del XII secolo, che avevano i propri stabili fondamenti, in via esclusiva, su legami di sangue e di propinquità clientelare-politica. Nel corso del tempo alcune famiglie, sino ad allora esterne ai clan parentali detentori del potere cittadino, riuscirono ad affiliarsi ad uno dei gruppi predominanti, dando avvio a un sistema di alleanze da tutti riconosciuto e sancito da appositi «roduli», ossia vere e proprie liste. L’accesso alle cariche comunali, insomma, secondo un rigido esclusivismo progettato dalle «progenies et cognationes» di governo, era deciso da codificati vincoli di parentela e identità. Un sistema di vicendevoli fedeltà così serrato che, almeno sino al Quattrocento, poteva far dire ad ogni cognazione di avere «amicos speciales» in grado di elargire «officia quando volunt». Una secolare stabilità dell’organizzazione per parentele della nobiltà che, come è stato osservato, non ha molti altri riscontri nelle coeve città dell’Italia centro-settentrionale. La solida e sicura adesione ad una delle quattro eminenti consorterie, comunque, non significò per Belluno pace e concordia sociale derivante dalla sistematica spartizione del potere ma, al contrario, un perdurante e muscolare agonismo che sfociò in una ininterrotta serie di tafferugli e scontri di piazza per il controllo del Consiglio cittadino e delle principali magistrature.
  Una città ‘contesa’: Belluno tra scaligeri, carraresi, Visconti, duchi d’Austria e signori locali (1321-1388)
Le istituzioni bellunesi e il ristretto gruppo di persone che ne erano a capo, durante i primi decenni del Trecento, confermarono in toto una generale incapacità di condurre una politica ‘autonoma’ slegata dalle mire egemoniche dei vari soggetti operanti nello scacchiere della terraferma veneta e nell’area alpina. Cangrande Della Scala sfruttò a suo vantaggio questa situazione di fragilità. Lo scaligero, lungo la prima metà del 1321, pilotando le ambizioni di Gorgia de Lusia (pretendente locale all'episcopio) e ricavando il maggiore utile possibile dalle controversie fra i Collalto e i da Camino, si impadronì prima di Feltre con l'aiuto di Siccone da Caldonazzo e quindi iniziò una inarrestabile penetrazione nel Bellunese acquisendo le fortezze di Avoscano e Sommariva nonché sottoponendo al suo controllo i conti di Cesana. Cangrande, sempre nello stesso periodo, in seguito alla morte violenta del vescovo Manfredo da Collalto fu in grado di capitalizzare l’estrema debolezza di Guecellone da Camino e i disordini scoppiati in città poco dopo l’assassinio del presule conquistando, nell’ottobre del 1321, Belluno ed affidandola a Bernardo Ervari. La nobiltà bellunese, in questa contingenza, riuscì ad intessere con Cangrande una ampia rete di rapporti ed intensi collegamenti dando avvio ad insperate opportunità per affermare e consolidare successi personali sul piano militare e sociale. Un esempio eloquente di tali ascese è quello di Endrighetto da Bongaio. Egli fu investito da Cangrande della contea di Alpago e armato cavaliere quindi divenne capitano di Belluno per conto di Mastino II Della Scala. Nel 1337, durante la crisi della signoria scaligera provocata dalla guerra condotta contro Venezia e Firenze, assunse il diretto controllo della sua città, si accordò con Carlo di Lussemburgo e traghettò Feltre e Belluno sotto il dominio del regno di Boemia. I metodi autoritari e intransigenti applicati nel reggere le sorti di Belluno e Feltre costarono a Endrighetto la cattura e la prigionia in Carinzia (1336). Il da Bongaio, riconciliatosi con il neoeletto imperatore Carlo di Lussemburgo, nel 1347 fu nuovamente alla guida di Belluno come vicario imperiale mentre, nel 1349, fu assassinato. Nel medesimo anno, tra l’altro, morì pure il vescovo che aveva contribuito alla riuscita di Cangrande in Belluno: Gorgia de Lusia.
Il decennio 1350-1360 fu per la città plavense marcato dalla perdurante presenza straniera: Carlo IV di Lussemburgo designò suoi fedelissimi nel ruolo di capitano, vicario e vescovo (prima il tedesco Enrico di Waldeck, 1349-1353, poi Giacomo Goblin da Brno nel 1354). Nel lasso temporale in questione, generale fu l’involuzione economica dell’aristocrazia locale dipendente dalla sempre meno redditizia rendita fondiaria: solo pochi, come ad esempio gli Avoscano, furono abili nel comprendere le potenzialità dello sfruttamento di altre sorgenti di reddito, quali, nel caso parentale in questione, le miniere di ferro nella zona di Livinallongo. Una crisi, quella delle cognazioni locali di ‘governo’, che sfociò in una sempre più marcata debolezza politica di Belluno soggetta (come la vicina Feltre) ad un continuo avvicendamento di soggetti politici dall’alto ‘peso’ specifico su scala regionale e sovraregionale, ovviamente ‘esterni’ al contesto bellunese e feltrino, sino al 1404 quando arriveranno i veneziani.
Belluno, a partire dal 1360, tornò nella sfera di influenza padovana sotto le insegne di Francesco da Carrara detto il Vecchio. Il signore di Padova acquisì il bellunese, il feltrino e Cividale dall’alleato Ludovico d’Ungheria che a sua volta aveva ottenuto questi territori da Carlo IV. Un gioco di scambi, con Belluno nel ruolo di involontaria protagonista, che a lungo perdurò negli anni successivi. Il carrarese, infatti, nel febbraio 1373, per assicurarsi l’appoggio dei duchi d’Austria in funzione antiveneziana consegnò Belluno e Feltre a Leopoldo III d’Asburgo. Quest’ultimo, poi, rese Belluno al Vecchio nel maggio 1386, in conseguenza degli eventi e dei trattati di pace della guerra di Chioggia (1378-1381), dopo una serrata serie di trattative fra le parti in causa: qualche anno prima, del resto, il carrarese aveva pagato ben 100.000 ducati pur di ottenere Treviso, Cèneda, Feltre e proprio Belluno. Ad ogni modo, nonostante l’intermezzo austriaco, forte fu il legame tra Belluno e Padova: ci basterà menzionare in merito il lungo (anche se puntellato da più o meno durevoli periodi di lontananza dalla città) episcopato del padovano Antonio Naseri (1369-1393), membro di una ricca famiglia originaria di Montagnana molto influente nella corte carrarese.
L’egemonia carrarese su Belluno e Feltre si esaurì nel 1388. Il signore lombardo Gian Galeazzo Visconti, nella temperie in cui si consumò l’espansionismo milanese nel Veneto di terraferma, non ignorò neppure l’area bellunese, efficace trampolino di lancio per controllare un itinerario di indubbia importanza come quello di Alemagna. Il Visconti, grazie al supporto dei ghibellini bellunesi (sempre sfavoriti durante la potestà carrarese), si appropriò della città e la dominò per circa un quindicennio sino al 1402. La morte del duca di Milano e il collasso definitivo delle ambizioni viscontee nella terraferma veneta significarono per Belluno un nuovo inasprimento delle lotte fra fazioni, inevitabile preludio alla formale dedizione nel maggio 1404 a Venezia.
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