ISSN 2974-508

Venezia

Marco Bolzonella
Porta della Carta, Francesco Foscari inginocchiato davanti al leone marciano
 La dimensione istituzionale: dalla formazione del Commune Veneciarum sino alla definizione di uno stato di tipo ‘patrizio’ (1200-1355)
Il contesto della politica interna e delle strutture istituzionali di Venezia, sin dai secoli XI e XII, registrò un progressivo ridimensionamento dell’autorità del doge e una limitazione dei suoi poteri sovrani, con una accelerazione evidente sin da quando, nel 1032, l’assemblea popolare aveva imposto al titolare del massimo centro di gravità dell'organismo politico veneziano il divieto di nomina di coreggenti o successori alla carica ducale. Un laborioso processo di riduzione delle prerogative personali del doge (il cui mandato restava vitalizio) a favore della realtà ‘impersonale’ dello stato e dei suoi ordinamenti rappresentativi (come, ad esempio, il Maggiore e il Minor Consiglio) che si protrasse costante sino agli albori del XIII secolo. Durante la seconda metà del Duecento nel campo delle riforme costituzionali, in estrema sintesi, iniziarono a fronteggiarsi due gruppi contrapposti: da un lato i sostenitori di un governo in grado di coinvolgere un numero sempre più ampio di voci, dall’altro quanti volevano assicurare i gangli del potere cittadino nelle mani di poche, selezionate, famiglie e parentele, ossia quelle da più tempo e maggiormente coinvolte nei lucrosi traffici commerciali. Questo articolato confronto-scontro fra opposte visioni portò alla svolta del febbraio 1297 (sotto il dogado di Pietro Gradenigo) quando fu approvata una legge (nota come serrata) tesa a disciplinare l’accesso al Consiglio cittadino: ad esso potevano accedere solo quanti ne erano stati membri nei precedenti quattro anni. Un provvedimento esteso nel 1298 pure alla quarantia (i tribunali di Venezia giudicanti in materia civile e penale): per farne parte bisognava poter dimostrare di aver avuto in tale consesso il padre o un avo paterno. Nel 1323 fu poi introdotto, in via definitiva, il principio dell’ereditarietà. L’entrata nel Maggior Consiglio era riservata solo ai figli e ai discendenti per via paterna dei suoi membri. Da questo preciso momento l’appartenenza a questo organo istituzionale diveniva la ‘regola’ per entrare nel novero dei papabili all’elezione di altre cariche pubbliche e uffici di prestigio della Repubblica nonché quale titolo imprescindibile per potersi definire ‘nobili’ a Venezia. Una ‘rivoluzione copernicana’ per gli assetti repubblicani lagunari che causò inevitabili ricadute sul piano delle tensioni sociali e mise a nudo i limiti stessi della coesione del ceto dirigente veneziano (un aspetto, questo, che mitigherebbe l'immagine tradizionale e ‘mitica’ di una società sostanzialmente priva di conflitti sin dall’età medioevale). Singole personalità, famiglie di ricchi mercanti, parentele più o meno ramificate, infatti, a diverso titolo si sentirono escluse o allontanate in maniera quasi definitiva dai centri nevralgici del potere. Tra il 1300 e il 1355, non a caso, svariate sollevazioni turbarono la concordia civica a Venezia. Degne di menzione furono nel 1300 l’insurrezione di Marino Bocconio; nel 1310 la rivolta promossa da Baiamonte Tiepolo, Marco Querini e Badoero Badoer; nel 1328 la ribellione della famiglia Barozzi; nel 1355 la famosa (e controversa) congiura che chiamò in causa lo stesso doge Marino Falier. Un clima marcato da chiare insofferenze per l’instaurarsi e definirsi di uno stato di tipo ‘patrizio’ che, tra l’altro, portò nel 1355 alla nascita di un tribunale speciale (il Consiglio dei Dieci) dotato di poteri straordinari con giurisdizione su tutto quanto era attinente all’ordine pubblico e al suo mantenimento. Un foro che, in futuro, nel bene e nel male molto farà parlare di sé nella plurisecolare vicenda storica (reale ma pure ‘mitica’) della Repubblica che aveva come proprio emblema il leone alato di San Marco. A questo punto, dopo una rapida ma necessaria premessa di natura istituzionale, possiamo passare a delineare gli avvenimenti che hanno segnato maggiormente la ‘vita’ di Venezia tra XIII e XIV secolo.
  La quarta crociata e l’età del «gran guadagno» (1204-1256)
Una concatenazione di eventi che segnò in profondità, in maniera indelebile, lo sviluppo futuro politico, sociale ed economico dello stato marciano è connessa, senza alcun dubbio, agli imprevisti sviluppi della quarta crociata promossa con vigore da papa Innocenzo III nell’estate del 1198 per liberare Gerusalemme caduta in mano musulmana sin dal 1187. Gli appelli papali portarono alla costituzione del nucleo dell’esercito crociato, formato da un gruppo di principi in prevalenza originari della Francia settentrionale, che intendeva avviare la spedizione nel 1202 muovendo proprio da Venezia. Gli uomini in armi, giunti in un numero molto meno cospicuo del previsto in laguna, si trovarono però nelle difficili condizioni di debitori insolventi: non erano in grado di onorare integralmente i pagamenti stabiliti dal contratto da tempo stipulato con i veneziani. Il doge Enrico Dandolo, con abilità, propose e ottenne di dilazionare il saldo di quanto dovuto a condizione che i crociati si impadronissero del porto dalmata di Zara, conteso da Venezia e dal regno d’Ungheria. Una volta domata la resistenza zaratina (1203), le variegate schiere armate cristiane composte ora anche dai veneziani (agli ordini dello stesso Enrico Dandolo) si spostarono a Costantinopoli. Il tormentato cammino che avrebbe dovuto avere come meta naturale la Terrasanta, quindi, mutò ancora dopo che i soldati provenienti da occidente, contraddistinti dal simbolo della croce, accolsero le pressanti richieste di Alessio Angelo, figlio dello spodestato imperatore bizantino Isacco II. La capitale dell’Impero latino tra il giugno del 1203 e l’aprile del 1204 fu teatro di terribili eventi. Isacco II fu prima reintegrato quindi fu vittima di un complotto che portò al potere Alessio Ducas Marzufluo. Il nuovo imperatore dopo aver fatto uccidere Isacco e Alessio (in nome dei quali era stata dirottata la stessa crociata) fu la principale causa del brutale saccheggio della città provocato dal rinnegamento di tutte le clausole degli accordi stipulati in precedenza con i veneziani e i capi crociati. Venezia, a questo punto, grazie alla lucida visione politica di Enrico Dandolo ottenne un enorme bottino in denaro e, attraverso i trattati del settembre 1204, pose le solide basi per la formazione di un impero commerciale che partendo dalle consolidate basi d’appoggio adriatiche si estendeva su buona parte del mar Mediterraneo orientale dove aveva per capisaldi da un lato il controllo sui porti di Corone e Modone e dall’altro il predominio su Creta, Negroponte e Costantinopoli. Lo stesso doge, del resto, aveva acquisito il titolo di dominatore di tre ottavi dell’Impero latino d’Oriente ed un comitato largamente controllato dai Veneziani (su dodici membri sei erano originari della città di s. Marco) eleggeva pure l’imperatore che risiedeva nell’antica Bisanzio. Le rotte mediterranee, insomma, per tutto il Duecento erano pronte per arricchire oltremodo gli armatori delle navi che provenivano da Rialto. Non a caso in sede storiografica si tende ormai a denominare quest’epoca di eccezionale espansione marittima e commerciale come l’età del «gran guadagno» o della «grande avventura Oltremare» per Venezia e i Veneziani.
Se il XIII secolo fu caratterizzato dalla prepotente espansione degli affari dello stato marciano nel Levante mediterraneo, quale fu la posizione tenuta dallo stesso in Occidente?
Venezia in buona sostanza, sino agli anni Trenta del Duecento, si mosse con sensibile realismo cercando di essere coinvolta il meno possibile dagli eventi che si verificavano nell’Alta Italia nel tentativo di cogliere i vantaggi o contenere i danni conseguenti agli sviluppi politici emersi di volta in volta nell’intricato contesto soprattutto italiano e dei territori dell’Impero. La contingenza che cambiò in maniera non indifferente le carte in tavola nell’entroterra veneto fu l’alleanza dell’imperatore Federico II con Ezzelino III da Romano (1232): di colpo si era composto un fronte compatto a ridosso delle lagune e i collegamenti tra l’emporio realtino con i mercati del nord Italia diventavano sempre più complicati. Inizialmente Venezia non aderì ad alleanze antimperiali (nel 1237 non prese parte, ad esempio, alla battaglia di Cortenuova a cui parteciparono molti dei nemici di Federico II) ma poi optò per schierarsi con il papato e quanti volevano a tutti i costi evitare di essere stretti e soffocati dalle mire universalistiche progettate dallo stupor mundi svevo. I veneziani, quindi, non solo ottennero un successo di peso nel 1240 ai danni della filoimperiale Ferrara (da allora sottoposta ad un rigido controllo commerciale) ma nel 1245 arrivarono a stilare un trattato di pace con Federico II che, de facto, chiudeva la fase acuta dello scontro armato con l’Impero. All’orizzonte restava vitale però ancora una grave minaccia rappresentata da Ezzelino III esiziale per la libertà delle vie di transito padane e i complessi interessi di natura privata (finanziari e fondiari) gestiti dai veneziani nel Veneto di terraferma. Venezia, quindi, nel 1256, aderì senza indugio alla crociata bandita da Alessandro IV contro il ‘tiranno’ da Romano la cui sconfitta ristabilì alle spalle del dogado gli equilibri (precari) che avevano garantito agli uomini provenienti dalle lagune di sostenere i propri interessi e fare, secondo la testimonianza di fonti coeve, «quantum volunt».
  La rivalità con Genova (1256-1299)
Il crescente antagonismo fra Venezia e Genova si aggravò lungo la seconda metà del Duecento anche alla luce della impetuosa crescita dell’influenza marciana connessa agli sviluppi inattesi della quarta crociata laddove le potenze marinare erano accomunate da interessi commerciali analoghi nei paesi levantini del Mediterraneo orientale. La prima guerra tra i due contendenti (1256-1270) scoppiò a causa di alcuni diritti rivendicati ad Acri lungo il confine dei quartieri veneziano e genovese. Il durevole scontro, conclusosi nel 1270 con la pace di Cremona, nonostante alcune importanti vittorie veneziane (Genova nel 1258 dovette ad esempio rinunciare ai propri punti d’appoggio proprio ad Acri) non ebbe ripercussioni di ampia portata ma lasciò in eredità, sullo scenario mediterraneo, equilibri precari e interessi vieppiù contrastanti. L’antagonismo tra Venezia e Genova, infatti, già nel 1293 si infiammò ancora una volta per il controllo di Laiazzo, al tempo porto della Cilicia o Piccola Armenia (costa sudorientale dell’Asia Minore). La svolta del conflitto si ebbe nel 1298 quando i genovesi nelle vicinanze di Curzola (isola della Dalmazia meridionale) sconfissero la flotta marciana e, tra l’altro, fecero prigioniero Marco Polo, con buona probabilità imbarcato come comandante (sopracomito) in una galera, sembra, armata dagli stessi Polo. Nel 1299 tanto Venezia quanto Genova erano esauste e decisero di stipulare trattati (purtroppo non risolutivi) a Milano. La città lagunare, ad ogni modo, alla fine delle operazioni militari perse alcune rotte di particolare importanza commerciale ma, nel complesso, non conobbe una significativa riduzione del volume dei propri affari: con pragmatismo, infatti, in seguito agli accordi milanesi mise nel proprio raggio d’azione mercantile mete alternative quali, solo per fare un esempio, l’Egitto o il Mar Nero.
  La supremazia commerciale in Adriatico e nel Mediterraneo (1300-1350)
Venezia, durante la prima metà del XIV secolo, continuò a vigilare con meticolosità pur di mantenere la necessaria libertà e sicurezza di navigazione per i propri vascelli nel bacino del mar Mediterraneo, configurandosi in modo sempre maggiore quale punto di collegamento ineludibile fra Occidente e Oriente. Il comune Veneciarum, a questo riguardo, nel 1310 stabiliva vantaggiose aderenze commerciali con Bisanzio – in vigore in pratica sino alla caduta della città in mano turca nel 1453 – e consolidava relazioni nonché mire economiche su Cipro, nel Mar Nero, nel Ponto e in Egitto. La parte orientale del Mediterraneo permaneva però instabile per le mire di supremazia veneziana: tra il 1350 e il 1355, difatti, cominciò una nuova guerra con Genova (alleata con il re d’Ungheria desideroso di strappare la Dalmazia marittima a Venezia) che vide gli acerrimi nemici scontrarsi soprattutto nel Mar Nero e nel Bosforo. Gli accordi di Milano (1355) posero temporaneamente fine alla belligeranza fra le due repubbliche marinare senza però eliminare i motivi che avevano portato allo scontro armato ma, anzi, lasciando aperte tutte le strade che avrebbero condotto a future conflittualità tanto con la città ligure quanto con il Regno d’Ungheria.
I veneziani all’interno dello spazio ‘vitale’ adriatico – basilare per i collegamenti marittimi e commerciali con il Mediterraneo ma pure regione-chiave per tutte le traversate dentro e fuori quello che la città lagunare considerava il proprio Golfo – tra il 1311 e il 1346 ribadirono a più riprese, sia usando la forza delle armi (come ad esempio nel caso della più volte ribelle Zara) sia utilizzando specifici accordi diplomatici, la propria sovranità nell’intera area litoranea compresa all’incirca tra le odierne Zara e Ragusa.
Nel Trecento gli occhi della Repubblica non smisero, comunque, mai di fissare con attenzione l’Hinterland padano-veneto per tutelare a dovere le vie commerciali e, in generale, difendere gli ampi e consistenti interessi marciani (pure di natura fondiaria) in terraferma. Il biennio 1303-1304 fu segnato dall’antagonismo con il comune di Padova per le (fallimentari) iniziative padovane finalizzate a costruire saline ai confini con il territorio di Chioggia e ‘ammorbidire’ l’indiscusso monopolio veneziano del sale, indispensabile per moltissimi aspetti della vita quotidiana del tempo. La guerra di Ferrara (1308-1313) dimostrò, quindi, che quando bisognava difendere l'agibilità di una via di traffico vitale come quella del Po e tutelare gli interessi veneziani in un’area strategica come la Romagna, il governo marciano non esitava a imbracciare le armi con il dichiarato obiettivo (poi mancato) di occupare manu militari una città dell’entroterra sin dal 1240, comunque, economicamente subordinata all’egemonia veneziana.
Un evento di grande rilevanza, destinato a modificare in modo sostanzioso e in tempi abbastanza brevi, i rapporti fra Venezia e il suo entroterra fu la conquista scaligera di Treviso (1329) e le connesse ambizioni di Cangrande I, Mastino II ed Alberto II Della Scala di imporsi quali principali controllori delle vie terrestri e fluviali (il corso del Po in primis) nella pianura padano-veneta. La ferma decisione veneziana di contenere, a proprio vantaggio, l’aggressività dei signori di Verona sfociò in una guerra offensiva di terra, inizialmente combattuta nel Trevigiano e nel Padovano, contro gli Scaligeri (1336-1339). Venezia dapprima alleata con Firenze riuscì ad imporre un mutamento proficuo agli eventi nella primavera del 1337 quando si coalizzò con la Milano viscontea, la Mantova gonzaghesca (entrambe irritate dall'aggressività di Mastino II) e la Ferrara estense in una lega che mirava con chiara evidenza ad annientare le prepotenze scaligere. Nel 1339 i trattati di pace disegnavano una nuova, per certi versi inedita, conformazione geopolitica del Veneto continentale. I Della Scala persero definitivamente Padova (consegnata da Venezia a Marsilio da Carrara) ma mantennero Vicenza mentre, dato rimarchevole, Treviso con il rispettivo distretto passava in mano veneziana: per la prima volta, con un anticipo di quasi settant’anni sulla definitiva conquista dell’intero entroterra veneto, la città lagunare si insediava stabilmente (sino al 1381) in terraferma.
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