ISSN 2974-508

Padova

a cura di Marco Bolzonella
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  La prima età comunale (1138-1237)
L’affermazione del regime comunale a Padova – espressione di uno straordinario sviluppo demografico, sociale ed economico della città – affonda le sue radici nel primo trentennio del XII secolo. La forma di governo ‘consolare’ di quello che si usa qualificare come il ‘primo comune’ rimase in vigore dal 1138 sino al 1174 accanto, in modo intermittente e alternato, ad un tipo di reggimento a magistrato unico (detto ‘podestarile’) fino al 1204. Padova, ad ogni modo, agli inizi del Duecento, contava all’incirca 15.000 abitanti e riuscì ampiamente a colmare il divario che ancora nel secolo XI – dopo un lunghissimo declino politico, sociale e economico vissuto sino all’anno Mille – la distanziava in maniera netta da molte città venete e a emergere come uno dei maggiori centri urbani dell’Italia nordorientale. Un’affermazione prepotente coordinata da un ceto dirigente composito formato da una ristretta cerchia di famiglie che avevano affollato la curia dei vassalli vescovili sin dall’età precomunale (i cosiddetti milites), da diverse dinastie di castellani del territorio (come, ad esempio, i da Carrara) nonché, a partire dai primi decenni del XIII secolo, da parentele e personalità appartenenti alle più ricche componenti produttive attive sia in città sia nel contado. Intorno al 1215-1220 il prestigio e le ambizioni politiche del comune di Padova toccarono il culmine. Solo alcuni dati sono estremamente eloquenti in merito. Attraverso apposite disposizioni legislative l’autorità comunale mise in discussione e ridusse di molto (in alcuni casi arrivò ad azzerare) i diritti giurisdizionali che svariate famiglie signorili (da Carrara, conti Maltraversi, Dalesmanini, da Camposampiero solo per fare qualche nome) e enti ecclesiastici (il vescovo o i monasteri di S. Giustina, di Praglia e di S. Michele di Candiana) potevano vantare in ampie zone del territorio tanto nell’alta quanto nella bassa Padovana; nel nord della provincia fu avviata la costruzione ex novo di Cittadella, vera e propria base operativa per controllare a dovere il potere della famiglia da Romano e coordinare le mire espansionistiche padovane in direzione della Valsugana e del pedemonte veneto; lo stesso patriarca di Aquileia otteneva la cittadinanza padovana pur di ricevere protezione militare; una serie impressionante di opere pubbliche furono realizzate per sottolineare la posizione di egemonia e di assoluta centralità del capoluogo sul territorio di sua pertinenza come, ad esempio, l’escavazione del canale Battaglia per collegare Padova con Monselice e la bassa Padovana o quella del Piovego in grado di connettere rapidamente la città con il grande emporio commerciale di Venezia. Un clima di crescente prosperità e sicurezza all’interno delle mura cittadine che, non a caso, nel 1222, convinse un consistente gruppo di studenti e professori provenienti dallo Studio di Bologna a migrare verso Padova per fondare la locale Universitas, il cui futuro sarebbe stato di assoluto prestigio nei secoli a venire.
  Gli anni di Ezzelino III da Romano (1237-1256)
Federico II, nipote di Federico I detto il Barbarossa, fu la personalità politica che alterò gli equilibri interni al ceto dirigente locale costringendolo a prendere una posizione chiara contro o a favore dell’imperatore. La compagine comunale padovana decise di qualificarsi, così, come il principale baluardo veneto avverso alle politiche imperiali e, sostanzialmente, fedele alla sede apostolica. La ben nota e straordinaria vicenda di Antonio da Lisbona – frate francescano morto a Padova nel 1231 e canonizzato l’anno successivo dietro istanza congiunta delle autorità religiose, civili e del corpo studentesco – non è che l’episodio più noto di tale situazione. Al contempo la vicenda di Giordano Forzatè, membro di una illustre progenie padovana nonché fondatore di un nuovo ordine monastico detto degli ‘albi’ dal colore della veste indossata, assunse, in piena sintonia con la curia romana, il ruolo di grande ispiratore e pilota della politica cittadina sempre più di tendenze, per così dire, dichiaratamente ‘guelfe’. Gli eventi precipitarono nel 1236. Ezzelino III da Romano – esponente di punta dello schieramento filofedericiano nello scacchiere della Marca – e gli imperiali presero e saccheggiarono Vicenza mentre l’anno successivo, dopo aver espugnato la strategica piazzaforte di Monselice, entrarono vittoriosi in Padova. Ezzelino, sin dal suo ingresso in città e senza apparenti obiezioni di Federico II, trasformò l’istituto comunale in un organismo a sovranità sempre più limitata allontanando, nel corso di un ventennio, tutti i suoi avversari politici non solo dai punti nodali del potere istituzionale cittadino sia civile sia religioso ma pure, in plurimi casi, dalla stessa Padova: parecchi nobili e importanti cittadini furono spediti come ostaggi in tutte le città italiane filoimperiali da Bressanone alla Sicilia. La ‘liberazione’ di Padova si ebbe solo nell’estate del 1256 grazie alla mobilitazione di una crociata promossa dal pontefice che riuscì a coinvolgere contingenti di emiliani, lombardi e veneziani di cui era capo il legato papale e arcivescovo di Ravenna Filippo Fontana.
  La ‘seconda repubblica’ padovana (1257-1318)
L’eccezionale e illiberale esperienza protosignorile di Ezzelino servì, quindi, da forte base ‘ideologica’ per consolidare in Padova un nuovo clima di concordia municipale di stampo repubblicano. Tra il 1260 e il 1310, infatti, mentre in molte città italiane si inasprirono guerre civili e si consolidarono ambiziosi regimi signorili, Padova godette di un cinquantennio di stabilità e di ordinato regime comunale (il periodo in questione è ricordato dalla storiografia come quello della cosiddetta ‘seconda’ repubblica padovana). Un rinnovato ceto dirigente composto da antichi e prestigiosi casati nobiliari, affiancato da numerose famiglie emerse grazie alle ricchezze accumulate attraverso il prestito del denaro ad interesse o alla pratica di attività artigianali, commerciali nonché legate alle professioni notarili e giudiziarie, riuscì ad imporre la propria città, sino alla discesa in Italia di Enrico VII nel 1310, da un lato quale assoluta protagonista delle vicende politiche e militari della terraferma veneta e dall’altro quale autentico caposaldo, assieme a Milano e a Firenze, del vasto schieramento ‘guelfo’ dell’Italia comunale. Pochi ma indicativi eventi vanno menzionati a tal proposito. Padova nel 1266 ridusse Vicenza e Bassano al ruolo di città prima ‘protette’ e poi direttamente dominate; estese la propria influenza politica in direzione di Feltre e Belluno; verso est stabilizzò i propri confini sino a ridosso delle lagune veneziane; sul finire del XIII secolo estese le frontiere oltre la linea meridionale del fiume Adige acquisendo Lendinara, Badia e arrivando, nel 1308, ad annettere il contado di Rovigo. La venuta a Padova di un artista di grido come Giotto, chiamato dal ricchissimo committente Enrico Scrovegni, può rappresentare, sotto un certo punto di vista, l’emblema del clima di grande crescita politica, economica, culturale e artistica che lo ‘stato’ comunale padovano visse ininterrottamente sino al primo decennio del XIV secolo.
Padova iniziò un vistoso declino in seguito all’arrivo in Italia di Enrico VII nel 1310: la compattezza politica e la concordia civile che avevano assicurato stabilità in città si sfaldarono in maniera lenta ma inesorabile soprattutto dopo la perdita nel 1311 del controllo diretto di Vicenza e dell’intero suo contado in favore del nuovo vicario imperiale Cangrande Della Scala. La politica militare espansiva del signore veronese segnò in modo irreversibile le successive vicende padovane. Sin dal 1311, infatti, si contrapposero due schieramenti intenzionati ad aprire o meno trattative con lo scaligero riconducibili, in linea generale, da un lato a quello composto dai membri della famiglia da Carrara e alle svariate parentele alleate e dall’altro al polo formato dai Lemizzi, Macaruffi, da Camposampiero, da Vigonza a cui si collegò, tra l’altro, il poeta Albertino Mussato.
  I da Carrara a Padova sino all’avvento del dominio visconteo: dal capitanato alla signoria (1318-1388)
In un contesto marcato da una crescita esponenziale di faide e vendette armate in città il 25 luglio 1318 Giacomo da Carrara fu nominato capitaneus generale – una sorta di protettore militare con pieni poteri sulla città in cui era ancora in vita l’ordinamento comunale – per tentare di ristabilire un minimo di concordia fra le parti in lotta per il potere. Nonostante questa designazione però la situazione restava tesissima: all’interno delle mura non cessarono le violente lotte di fazione mentre all’esterno Cangrande continuava a imperversare nei territori un tempo saldamente soggetti a Padova. La città, su suggerimento dello stesso Giacomo da Carrara, per provare a trovare sostegni interni ed esterni contro lo scaligero tra il 1320 e il 1328 fu sostanzialmente sottoposta al protettorato di Federico d’Austria (imperatore eletto in concorrenza con Ludovico il Bavaro) che inviò in loco i suoi vicari Ulrico di Waldsee e Corrado di Owenstein. Una presenza, quella tedesca, che comunque si dimostrò in buona sostanza inutile a sopire le discordie fra gruppi magnatizi e a scoraggiare Cangrande a estendere il suo diretto dominio su Padova. Lo scaligero, difatti, dopo aver allontanato le milizie germaniche, l’8 settembre 1328 coronò il suo ambizioso progetto politico: egli si incontrò a Vicenza con i rappresentanti padovani che gli cedettero il governo della città.
L’abilità politica di Marsilio da Carrara, nel 1337, riconsegnò una difficile autonomia alla sua ‘patria’. Egli, infatti, si inserì in qualità di credibile partner all’interno di una ampia coalizione antiscaligera costituita da Venezia, Firenze, Milano, Mantova e Ferrara. Una felice scelta di campo del carrarese che permise di portare a termine la dominazione scaligera su Padova continuata, dopo Cangrande, dai suoi nipoti Alberto e Mastino. Il 12 agosto 1337 il da Carrara rendeva solenne omaggio al doge impegnandosi di fatto a subordinare per il futuro prossimo l’azione politica (ed economica) dei suoi successori al governo marciano. Era, de facto, l’avvio vero e proprio della signoria carrarese.
Ubertino (1338-1345), Marsilietto Papafava (1345) e Giacomo II (1345-1350) perfezionarono l’articolato percorso di legittimazione del governo signorile teso rendere ormai evidente che il destino della città era legato indissolubilmente a quello dei principi. Importanti iniziative, a questo riguardo, furono promosse dai domini da Carrara come, ad esempio, l’istituzione di un apparato di ufficiali addetti all’amministrazione della cosiddetta fattoria signorile dotati di competenze trasversali in materia economico-finanziaria; la convinta promozione di interventi a favore dello Studio cittadino attuati d’intesa con il vescovo cittadino; il controllo sempre più stretto e vigile sui gangli della Chiesa locale; l’edificazione di una suntuosa residenza signorile nell’area urbana di San Clemente-San Nicolò. Infine, a testimonianza dell’attenzione posta pure al mecenatismo e allo sviluppo culturale, proprio Giacomo II da Carrara, nel 1349, fece ottenere a Francesco Petrarca un ricco canonicato e una casa nei pressi della cattedrale dando così l’avvio al lungo rapporto di amicizia e collaborazione tra il poeta e la famiglia carrarese.
Francesco il Vecchio, figlio di Giacomo II, conquistò i poteri signorili in città nel 1350 (prima condivisi con lo zio Giacomino poi, a partire dal 1355, in solitaria) in un contesto in cui l’autorità carrarese era pienamente consolidata. Il Seniore si adoperò, nel contesto politico cittadino, da un lato per garantirsi una autorità sempre più solida (acquisizione del vicariato imperiale e riforma degli statuti comunali del 1362) dall’altro per potenziare l’economia padovana. Un forte stimolo fu riservato, ad esempio, nel comparto mercantile al lanificio e al setificio. La costante accelerazione del dinamismo socio-economico, soprattutto incentrata sull’irrobustimento delle attività mercantili e delle transazioni finanziarie (non limitate solo al contesto locale), lungo la seconda metà del Trecento, consentì, quindi, ad un consistente gruppo di uomini ‘nuovi’ o di più recente fortuna e notorietà (da Lion, Turchetti, Naseri, Descalzi, Dondi, Mezzoconti, Zabarella) di emergere inserendosi, in svariati casi, nell’entourage signorile accanto a quelle famiglie forti di posizioni di prestigio godute già nel precedente periodo comunale (Capodilista, Zacchi, Dotti, Capodivacca o Paradisi).
Il da Carrara, in politica estera, si affrancò dallo stringente giogo marciano avviando, in particolar modo dopo il 1356, aggressivi progetti espansionistici schierandosi a fianco di Ludovico I re d’Ungheria nella guerra combattuta da Venezia contro il regno ungherese per il controllo della Dalmazia marittima e la conseguente supremazia nell’alto Adriatico. Negli anni Sessanta, poi, il Carrarese estese il proprio dominio su Feltre e Belluno, aumentando costantemente la pressione su Treviso (in mano ai Veneziani) e sul Friuli. Nel 1372, invece, dopo ripetute scaramucce per determinare alcune aree di confine tra il distretto padovano e veneziano, scoppiò con il comune Veneciarum un conflitto armato conclusosi nel 1373 con una pesante sconfitta padovana che, tra i vari effetti di questo fallimento militare, portò alla perdita del controllo sulla Valsugana, Feltre e Belluno. In questo preciso contesto, tra l’altro, Francesco Petrarca (2 ottobre 1372) svolse l’ultima missione diplomatica per conto di Francesco il Vecchio da Carrara prendendo la parola nell’umiliante cerimonia in cui Francesco Novello, figlio ed erede del dominus Padue, fu costretto a riconoscere davanti al Senato e al doge di Venezia che le responsabilità della guerra ricadevano interamente su di loro. Il cronista Nicoletto d’Alessio assistette (inviato di parte carrarese) alla cerimonia e descrisse il poeta ormai stanco, provato nonché autore di un discorso tenuto con voce incerta.
Il Seniore nel 1378 tentò di prendersi l’agognata rivincita sulla città di s. Marco inserendosi in una grande lega antiveneziana che coinvolgeva Genova, Padova, il re d’Ungheria, i duchi d’Austria, il patriarca di Aquileia, gli Scaligeri, Ancona e la regina Giovanna di Napoli. Venezia durante la cosiddetta guerra ‘di Chioggia’ rischiò di essere travolta trovandosi chiusa in una soffocante stretta dalla quale però, a fatica e al prezzo di enormi sacrifici, riuscì ad emergere. I trattati di pace di Torino del 1381 lasciarono in gran parte immutata la geografia politica dell’entroterra veneto-friulano (solo Treviso era stata ceduta al duca Leopoldo d’Austria) e intatte le ambizioni carraresi. Già nel 1384, del resto, il da Carrara rientrava in possesso di Treviso, Feltre, Belluno e si proiettava ancora una volta minaccioso verso la pianura friulana.
Il conte di Virtù Gian Galeazzo Visconti fu però la variabile imprevista che, in un breve arco di tempo, si rivelò in grado di delineare una politica espansionistica senza precedenti tale da prefigurare addirittura possibile l’unificazione, sotto un solo potente signore, di una cospicua parte dell’Italia centrosettentrionale. Il dominus milanese, infatti, nel solo Veneto continentale, forte di una alleanza stretta con Venezia, conquistò in rapida successione Verona, Vicenza, Bassano, Belluno, Feltre, Treviso e, infine, Padova (primi mesi del 1389). Francesco il Vecchio, dopo aver abdicato nel giugno 1388 nella convinzione (errata) di poter così placare le ambizioni viscontee, avrebbe finito i suoi giorni in esilio prigioniero dei Visconti mentre Padova solo nel 1390 sarebbe ritornata in mano ai carraresi. Francesco Novello da Carrara, figlio del Seniore, ultimo signore padovano poteva così riprendere, sino alla fatale estrema conclusione del 1405, il mortale duello con Venezia. Agli albori del XV secolo i da Carrara spezzavano, per sempre, il lungo legame con Padova che con alterne fortune aveva rinnovato in profondità sotto l’aspetto politico, sociale ed economico ma pure urbanistico e culturale il volto della loro città.
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