ISSN 2974-508

Vicenza

Marco Bolzonella
Fotografia dell'autore
 Vicenza dalla pace di Fontaniva al predominio di Ezzelino III da Romano (1147-1259)
Vicenza, nella fascia pianeggiante e pedemontana compresa fra i fiumi Adige e Piave, componeva con Verona, Padova e Treviso l’asse centrale dei principali poli urbani della Marca Veronese-Trevigiana. La città berica estendeva, nei secoli da noi brevemente presi in considerazione, la propria giurisdizione su un contado composto da circa duecentoventicinque comunità di villaggio e aveva come propri confini ‘storici’ a nord l’altopiano di Asiago, a sud il comprensorio dei Berici, a occidente il torrente Alpone mentre il margine orientale del distretto era ‘sagomato’ dal corso del fiume Brenta. Marostica e Bassano, destinate a divenire nel pieno e tardo medioevo due delle principali ‘città murate’ del Veneto di terraferma, erano, dopo il capoluogo, i maggiori e più popolosi caposaldi dell’armatura territoriale gravitante su Vicenza.
Una data di particolare importanza per la storia vicentina è il 1147. La pace di Fontaniva, ratificata nell’anno in questione, stabiliva, nelle sue linee essenziali, chi avrebbe avuto il controllo del Bacchiglione e soprattutto del Brenta: i due ‘blocchi’ in opposizione erano composti, da un lato, da Padova e dagli esponenti dell'aristocrazia militare radicata nei comitati di Treviso e di Ceneda (oggi Vittorio Veneto) mentre dall’altro proprio da Vicenza e da Verona che fruivano dell'appoggio ‘esterno’ di Venezia. Tale accordo, oltre a determinare quali equilibri politici sarebbero stati in vigore nella Marca negli anni a venire, è, nel nostro caso specifico, di particolare rilevanza poiché compaiono per la prima volta dei consoli vicentini. Il 1147, quindi, secondo la communis opinio storiografica, sarebbe la prima attestazione dell'esistenza del comune urbano a Vicenza. Non sappiamo, con assoluta precisione, quali forze sociali costituivano il fulcro di tale istituzione. Sembra però acclarato che la componente mercantile fosse al tempo molto ridotta, ad eccezione della categoria dei ‘mercanti del denaro’ storicamente ben radicata in Vicenza. Il comune locale, lungo tutta la prima stagione comunale, ebbe con buona probabilità una marcata impronta ‘aristocratica’ avendo come proprio centro gravitazionale un ristretto nucleo di grandi parentele feudali insediate nel territorio e attive in città: i nomi più noti, solo per citarne qualcuno, rispondevano a quelli altisonanti dei Maltraversi, dei Capra, dei da Velo, degli Altavilla, dei da Breganze, dei da Romano, dei da Sossano, degli Arzignano, dei da Trissino, dei da Serego (o da Sarego) oppure dei da Vivaro. In sede storiografica si è, in maniera appropriata, d’altronde definito l’istituto municipale locale come un vero e proprio «comune di famiglie».
Vicenza sino a quando fu conquistata dall’imperatore Federico II e soggiogata, per un ventennio, al dominio di Ezzelino III da Romano fu teatro, soprattutto a partire dall’ultimo decennio del XII secolo, di contrasti violenti tra le fazioni cittadine che si coagulavano, in estrema sintesi, attorno alle partes dei Conti (pars Comitis) e degli avvocati vescovili da Vivaro (pars episcopi). A testimonianza di quanto il clima in questo frangente storico fosse avvelenato si può rammentare che ben due vescovi, pienamente immersi nelle vicende politiche (Giovanni Cacciafronte e Pistore), furono uccisi in poco meno di vent’anni. Pur nell’estrema fluidità degli eventi, provocata dalla composita ed eterogena natura delle parti in lotta, fu, ad ogni modo, una famiglia a svolgere un ruolo di primissimo piano nelle questioni che lacerarono la vita politica vicentina. I da Romano, infatti, sino agli anni Trenta del Duecento, attraverso le figure di Ezzelino II e del suo penultimo figlio Alberico, rappresentarono un punto di riferimento per i vari schieramenti in competizione per l’egemonia cittadina durante la prima età comunale. Ezzelino II sfruttando indubbie abilità diplomatiche, talvolta spregiudicate (tra il 1193 e il 1194, ad esempio, cedette la ‘sua’ Bassano ai padovani in cambio di una notevole somma di denaro suscitando forti tensioni proprio con i vicentini), riuscì, grazie anche agli appoggi imperiali, ad esercitare la podesteria in Vicenza negli anni 1210-1211 e 1212-1213 dando vita ad una prolungata prevalenza dei suoi partigiani in città. Un predominio, quello di quanti fiancheggiavano Ezzelino, che si affievolì intorno al 1219 quando la fazione dei conti, avversa agli ezzeliniani, iniziò a prevalere. La definitiva uscita di scena di Ezzelino II, ritiratosi a vita religiosa nel 1223 (da qui l’appellativo il Monaco con cui è ancor’oggi noto), lasciava campo aperto all'azione dei figli Ezzelino III e Alberico. Quest’ultimo a Vicenza era a capo di una sua fazione (la pars domini Alberici) e fu a tratti sia duramente osteggiato sia sostenuto arrivando, nel 1227, a farsi nominare podestà dopo aver organizzato, con il decisivo aiuto del fratello e di esponenti di primo piano della nobiltà vicentina, un colpo di mano. Alberico mantenne tale incarico sino alla fine del 1229 quando dovette lasciare la guida di Vicenza a causa delle aperte ostilità sia interne (il vescovo e i da Breganze in primis) sia esterne (un ampio cartello di ‘federati’ che comprendeva Venezia, il comune di Padova, i da Camposampiero, i da San Bonifacio e gli Este). A partire da questo momento i da Romano furono emarginati dalle vicende politiche vicentine. Nonostante un quadro politico così teso Vicenza, comunque, mantenne una certa vitalità sul piano socio-culturale: in merito ci basterà ricordare che, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, è documentato, per mezzo di una migrazione studentesca da Bologna, il primo tentativo di formare, in area veneta, uno Studio universitario. Fu proprio l’instabilità politica a far chiudere anzitempo (già intorno al 1209) questo esperimento che troverà un terreno di coltura ben più adatto nella vicina Padova nel 1222.
La temporanea diminuzione del protagonismo dei da Romano nel contesto ‘pubblico’ vicentino offrì ai padovani e agli estensi, ossia i principali competitori di Alberico e Ezzelino III per il predominio nella Marca, la possibilità di realizzare le rispettive mire egemoniche su Vicenza. Padova, del resto, già nel 1230 impose una sorta di alleanza ai vicentini grazie all’intermediazione del nuovo podestà berico (il veneziano Filippo Zulian in carica tra il 1229 e il 1230) obbligando – addirittura attraverso una mirata aggiunta negli statuti – tutti i cittadini di Vicenza dai 15 ai 70 anni ad osservarla previo giuramento. Una imposizione che causò una sollevazione antipadovana sedata con la temporanea occupazione della città berica dell’esercito patavino nel 1231.
Il biennio 1233-1235, quindi, vide il compiersi dell’effimera parabola politica del domenicano Giovanni da Schio (o da Vicenza). Il frate, sull’onda emotiva suscitata dalle sue prediche pacificatrici e dal movimento penitenziale dell’Alleluia (di cui si fece promotore principale), riuscì ad ottenere il titolo di dux et comes della città ponendosi come obiettivo (irrealizzabile) una campagna di pacificazione non solo limitata all’orizzonte cittadino ma addirittura a quello regionale: fu previsto, infatti, il matrimonio del figlio del marchese d’Este, Rainaldo, con Adeleita, figlia di Alberico da Romano. La missione ‘salvifica’ di Giovanni ebbe però una durata molto limitata nel tempo. Vicenza, già dal 1235, era, di fatto, nella sfera di influenza padovana (il milanese Ottone da Mandello nell’anno in questione era con tutta probabilità podestà di entrambe le città) ed estense dal momento che Azzo VII d’Este, nel 1236, acquisì la carica podestarile.
Il vero punto di svolta per la tormentata vita politica vicentina si verificò nella notte della vigilia di Ognissanti del 1236. L’imperatore Federico II, valutata la necessità di un suo intervento diretto nella Marca, attaccò, conquistò ed affidò Vicenza ad un capitano (Guglielmo Visdomino) di nomina imperiale. Il vero padrone indiscusso in città e nel contado berico, però, era ormai di fatto – nonostante gli amministratori locali ordinari e straordinari fossero scelti, con certezza fino al 1242, dal sovrano svevo – Ezzelino III da Romano che sin dal 1232 si era legato definitivamente alla causa dell’Impero. Il figlio di Ezzelino II il Monaco, riuscì, tra l’altro, a godere per un intero ventennio del saldo favore non solo della collettività urbana e dei signori del territorio ma anche di importanti centri semi-urbani del distretto. In merito ci basterà menzionare, di sfuggita, che proprio nel cuore del territorio vicentino era ubicata la strategica e storica ‘base operativa’ pedemontana degli ezzelini. Bassano e la sua popolazione, difatti, sin dagli anni Trenta del Duecento (quando la cittadina era governata da Alberico da Romano) fornirono con continuità, sulla scorta di una indiscussa fedeltà testimoniata in maniera abbondante dalle cronache del tempo, risorse militari e preziosi finanziamenti al da Romano in pratica sino agli ultimi giorni della sua vita (settembre-ottobre 1259).
  Una libertà ‘precaria’: Vicenza dal regime comunale alla soggezione padovana (1259-1311)
I primi anni Sessanta del XIII secolo furono per Vicenza il brevissimo e fugace periodo in cui fiorì, all’indomani della fine della lunga esperienza protosignorile ezzeliniana (ottobre 1259), la ‘città-stato’ comunale. Le istituzioni municipali cercarono di riorganizzarsi attraverso alcune, significative, tappe. Il primo nodo da sciogliere riguardava il problema del controllo di Bassano: ciò fu raggiunto solo dietro la contropartita di esenzioni commerciali e importanti privilegi. I governanti berici, poi, per rassodare l’autorità comunale, nel 1261-1262, incamerarono i patrimoni un tempo di pertinenza di Ezzelino (redazione del Regestum dei beni del comune) mentre, nel 1264, promulgarono lo statuto cittadino che si proponeva, tra l’altro, di arginare l’autorità delle famiglie signorili del contado, come è stato sottolineato dalla recente storiografia, costituenti l’imprescindibile nerbo del ceto dirigente locale. Una impresa, quest’ultima, destinata a non essere coronata da un successo netto: nelle campagne vicentine, infatti, la presa dell’autorità nobiliare nonché la capacità di mobilitare e reclutare uomini del contado pronti a combattere agli ordini di un ampio numero di parentele i cui interessi, come ricordato in precedenza, erano ben radicati al di fuori delle mura cittadine permase robusta e vitale ancora lungo tutta la seconda metà del Duecento. Le autorità comunali, in sostanza, controllarono il distretto di propria pertinenza in modo assai limitato e imperfetto. In città, ad ogni modo, fu il vescovo Bartolomeo da Breganze ad assumere un ruolo istituzionale di assoluto rilievo, quasi di ‘protettore’ delle principali magistrature comunali: gli Anziani del comune, ad esempio, svolgevano le proprie riunioni proprio nel palazzo vescovile. Una posizione, quella assunta dal presule, che creò, in poco tempo, dissidi interni molto gravi tra le principali famiglie di ‘governo’ che, di fatto, aprirono la strada alle operazioni indirizzate ad assoggettare Vicenza a Padova. Nel 1267 Vicenza e il suo distretto erano, dunque, già governate da un podestà padovano, eletto dal Consiglio della città di Antenore, che aveva assunto l’impegno di ‘guidare’ i vicentini, letteralmente, pro honore comunis Padue. Iniziava così la lunga stagione della dura subordinazione (sul piano politico, economico e istituzionale) della città berica a Padova. Un predominio di un centro urbano su un altro che non ebbe paragoni, per l’alto tasso di oppressione e gravezza, nell’intera Italia padana dell’epoca.
  Una città ‘subordinata’: Vicenza nel Trecento (1312-1387)
Vicenza, nobile e veneranda urbs Cimbria, come ebbe a ricordare Ferreto Ferreti – illustre poeta, storico e intellettuale del tempo – fu condannata dalla sorte ad essere «agnella fra i lupi» padovano e veronese e, quindi, a mutare padrone senza più ritrovare la propria libertà. Nel 1312, infatti, dopo mezzo secolo di sottomissione al comune di Padova, Verona entrò in possesso della città berica in seguito alla concessione a Cangrande Della Scala del vicariato imperiale su Vicenza da parte di Enrico VII di Lussemburgo. L’effettiva conquista manu militari compiuta dallo Scaligero, dopo quella avvenuta attraverso la nomina imperiale, fu facilitata dal radicamento dei risentimenti antipadovani e dalle mai sopite divisioni di fazione interne all’establishment locale: i vicentini restarono così legati alla signoria veronese, ininterrottamente, sino al 1387. Un controllo che divenne ancor più stringente e preciso, sotto il profilo amministrativo, dal 1342 quando il dominio territoriale scaligero si ridusse, dopo il perdente conflitto armato con Venezia, alle due sole città di Verona e Vicenza. Alcuni rapidi cenni sono testimonianza efficace dell’inesorabile processo di incorporazione dell’impalcatura amministrativa vicentina all’interno dello stato scaligero. Le istituzioni municipali vicentine, difatti, conobbero un deciso processo di svuotamento e depotenziamento politico culminato con la creazione di nuove magistrature (i deputati ad utilia costituiti per norma statutaria nel 1339) e ufficiali (il capitaneus o il factor) che operarono in strettissima collaborazione con il podestà locale, di regola un veronese o designato direttamente dai signori. La stessa Chiesa vicentina fu sottoposta alla stretta vigilanza veronese: il seggio episcopale fu assegnato, per tutto il Trecento, ad un vescovo fedele ai Della Scala. Norme organiche, poi, giunsero a maturazione verso la fine dell’età scaligera per tutelare a dovere le proprietà fondiarie cittadine nel contado. Ciò fu reso possibile dalla formazione di una rete di circoscrizioni amministrative e giurisdizionali minori (undici vicariati) che inquadrarono, tra l’altro, l’intero distretto vicentino sino all’arrivo in Italia di Napoleone Bonaparte. Vicenza, ad ogni modo, prima sotto il predominio scaligero, quindi, dal 24 ottobre 1387 quando passò agli ordini di Gian Galeazzo Visconti duca di Milano ed, infine, con la dedizione del 1404, certificazione del passaggio nel dominio di terraferma veneziano, si adattò abbastanza placidamente al ruolo di ‘periferia’, inglobata – sotto il punto di vista amministrativo, fiscale e istituzionale – in uno stato territoriale. Un dato va però sottolineato in chiusura. Vicenza, come accennato, lungo il Trecento conobbe sul piano politico, sulla base di una evidente debolezza interna e della mancanza di leaders carismatici, una chiara staticità che non si riverberò però nel quadro generale degli assetti sociali interni. La sostanziale stabilità della società urbana – dominata fino a tutto il Duecento da un mix di famiglie di antica tradizione cittadina e parentele titolari di diritti signorili nel contado – già durante gli anni della potestà veronese conobbe un punto di svolta. Nella città berica le età ‘scaligera’ (1312-1387) e ‘viscontea’ (1387-1404) furono favorevoli a uomini e aggregati parentali ‘nuovi’ in grado di compiere affermazioni sociali molto rapide come, ad esempio, accadde nel caso dei Pigafetta, dei da Sesso, dei Fracanzani, dei Chiericati, dei Godi o dei Proti. Ascese – poggiate in line di massima sulle buone opportunità offerte dalla nascente manifattura laniera, dall’attività creditizia, dalle carriere militari o dal favore goduto a Verona all’interno della ‘corte’ dei Della Scala – che culminarono con lo stabile inserimento nel patriziato nel corso del Quattrocento e del Cinquecento di molti cives vicentini, in origine di modesta estrazione e sino ai primi decenni del XIV secolo sconosciuti o ai margini del vecchio ceto dirigente locale.
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